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A
cura di Mariateresa Grillone
Nadia Murad
premio Nobel per la pace 2018, ha scelto di affidare la sua storia a
un libro, scritto con la giornalista Jenna Krajeski: L'ultima
ragazza. Storia della mia prigionia e della mia battaglia contro
l'Isis (Ed.Mondadori prefazione di Amal Clooney, pag 334).
E' la
drammatica testimonianza della lotta a difesa delle donne yazide che,
come lei, sono state rapite e ridotte a schiave sessuali dell'Isis.
É
andata dappertutto a raccontare quello che le era successo, nei
minimi dettagli, dettagli orribili, di stupri di gruppo, di torture,
di schiavitù da un miliziano all'altro, senza sosta per tre mesi. Ha
raccontato all'ONU, di cui è divenuta ambasciatrice, al Papa, ai
leader di tutto il mondo (solo l'Arabia Saudita si è rifiutata di
riceverla) cosa significa essere vittima di stupro di guerra.
La
vita di Nadia si è incrociata anche con quella di una donna lontana
anni luce dal suo mondo, Amal Alamuddin, più nota come consorte di
Clooney, avvocata di diritto internazionale e diritti umani che ha
affiancato la comunità di profughi yazidi nella loro lotta.
Il
15 agosto 2014 i militanti dell'Isis irrompono nel villaggio di
Nadia, Kocho, nell'Iraq del nord, incendiano le case, uccidono 700
fra uomini e donne. Nadia e centinaia di ragazze come lei vengono
portate a Mosul e rinchiuse in centri di "distribuzione", a
disposizione dei miliziani dell'Isis.
Inizia
così l'inferno: venduta al mercato delle schiave, finita nelle mani
di un giudice riverito, quanto brutale nei confronti della sua preda,
passata di mano in mano ad altri militanti, violentatori seriali. "A
un certo punto non resta altro che gli stupri, il tuo corpo non ti
appartiene e non hai le energie per parlare, per ribellarti, per
pensare al mondo esterno. Non avere più speranze è quasi come
morire".
Eppure riflette "la
morte non era arrivata. Nel bagno del posto di blocco scoppiai a
piangere. Per la prima volta da quando avevo lasciato Kocho credetti
davvero di morire ed ebbi la certezza di non volerlo".
È proprio
questo ostinato attaccamento alla vita che un giorno, tre mesi dopo
il suo rapimento, spinge Nadia ad aggrapparsi alle poche energie
residue e, vincendo il panico, approfittare di una svista del suo
aguzzino per fuggire. Vaga come in trance, finché si decide a
bussare a una porta qualunque. Inaspettatamente, la famiglia
(sunnita) che aprirà quella porta la ospiterà e l'aiuterà a
fuggire nel Kurdistan iracheno. Seguirà il ricongiungimento con i
fratelli superstiti e l'opportunità di andare in Germania come
rifugiata, dove Nadia Murad è diventata un'attivista a fianco della
ONG Yazda.
Oggi
è una donna libera, che ha scelto con coraggio di denunciare al
mondo intero le violenze subite dal suo popolo, minoranza curdo
irachena che lo Stato Islamico ha sistematicamente sterminato o
ridotto in schiavitù, in nome di una furia genocida nei confronti
degli "infedeli", colpevoli di professare una religione
diversa.
L'efferatezza
maschile annichilisce Nadia, ma quando sono le donne a fare
l'ingresso in questa storia di inaudita violenza, la ragazza non
riesce a capacitarsi: come
fate a non sapere, come fate a non intervenire? Il silenzio che più
pesa è il silenzio di un'altra donna: se non mi capisce lei, chi
potrà mai farlo?
La
complicità delle donne con lo Stato Islamico fa infuriare e tremare
Nadia Murad, ma il suo messaggio è un invito a non lasciarsi
sopraffare dalla violenza e a conservare intatta la fierezza delle
proprie radici.
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